Anche la sostenibilità viene usata come strumento da un mondo consumista e basato sul marketing, come interrompere questo trend negativo?
La nostra società corre veloce, in un’accelerazione continua, che brucia tappe e tempi, persone e relazioni, esperienze e progetti: tutto e subito. L’oggi espropria lo spazio del domani, il godimento svuota ogni durata possibile, il consumo produce scarti. Vale lo stesso per alcune parole, persino quando sembrano avere gli anticorpi per resistere a tutto questo, persino quando sembrano nascere per opporsi a tutto questo. Così pare stia accadendo addirittura con sostenibilità. Sì, proprio la sostenibilità, la cui parabola sembra quasi segnata. Ce ne siamo già stancati. Ieri era una parola di nicchia (molto green), oggi è diventata una parola di massa (molto marketing), domani rischia di essere l’ennesimo scarto di un consumo folle, forse, addirittura, di un abuso da pubblicità ingannevole.Ecco la nostra sfida. Non semplicemente difendere la sostenibilità dalla sua commercializzazione (a tratti prostituzione), ma darle un futuro credibile, darle un domani, credere nella sua durevolezza: che la sostenibilità non sia oggi un bel “trucco” che domani possiamo rimuovere (scoprendone la finzione) o che domani rischiamo di veder colare (assistendone al decadimento).In un bellissimo (e poco noto) saggio dedicato al tema della tolleranza, il filosofo francese Paul Ricoeur, nel 1997 scrive: “sostenere quel che sta crescendo, è questa la responsabilità”. L’oggetto della nostra comune responsabilità sarebbe dunque, ci dice Ricoeur, qualcosa la cui crescita è sempre in pericolo. E se dovessimo tutti diventare responsabili della sostenibilità? Se infatti la responsabilità è sempre responsabilità nei confronti di ciò che è fragile, in quanto frangibile, quindi prezioso perché frantumabile, allora forse oggi siamo chiamati a farci responsabili della sostenibilità, a sostenere la sostenibilità, perché fragile nella sua veste autentica, e quindi preziosa nella misura in cui non si strumentalizza.Ma in quel saggio Ricoeur dice anche altro, che può tornarci utile in questo piccolo spazio di riflessione. Lo scrive così: la nostra società ècaratterizzata da occasionali e ripetuti scatti di indignazione, da una passione reattiva nei confronti di una serie di “mali” riconosciuti, “ma non sappiamo di quale ‘bene’ essi siano il rovescio”. Così diamo vita a una politica minimale, fondata sull’impedire di nuocere. Ma “l’ingiunzione a non nuocere, benché molto più evidente, resta assai più debole che non l’ingiunzione a fare del bene”.Forse allora sta davvero qui il terreno nuovo: la sostenibilità su tre gambe (ambientale, economico e sociale), certo; ma soprattutto la sostenibilità insieme come cambio di habitus personale (riguarda l’interezza del mio essere al mondo) e creazione di un habitat culturale (riguarda un incontro possibile e necessario tra tradizioni, etiche e confessioni intorno al “noi” e al “domani”).Per essere tutto questo non può più limitarsi né a un appello a non nuocere, né a una politica delle certificazioni. E per essere tutto questo deve costringerci a interrogarci su ciò che per noi è bene, anche nella sua fragilità. Perché solo così, nella fragilità di quel bene al quale insieme dobbiamo tornare a dare parola e forma, potremmo sentirci responsabili nei confronti della sostenibilità e della scommessa di cui questa parola si fa carico.Sostenere la sostenibilità in fondo vuol dire non farne l’ennesimo rifiuto da smaltire.
Luca Alici è professore associato di Filosofia Politica (UniPg), project leader della Fondazione Lavoroperlapersona e uno degli ideatori di Sostenabitaly