Comunità: entità sociale per il bene comune o solo un bel termine politically correct?

Parlando di comunità viene subito alla mente una sorta di entità sociale dove chi ne fa parte coopera insieme ad altri per il “bene comune”.
Un termine che, ad essere sinceri, è stato più volte utilizzato e strumentalizzato per dar lustro più che altro a discorsi, campagne marketing e progetti molto politically correct sì, ma in quanto a concretezza zero.

Comunità ecosostenibile

Parlando di comunità ecosostenibile, ad esempio, vi siete mai domandati quando acquistate un prodotto bio e in linea con tutti gli standard a favore di “madre natura” se il vostro acquisto (fatto con le migliori intenzioni e a favore dell’ambiente), rispetti anche la dignità dei dipendenti (salario, condizioni di lavoro e salute) che operano all’interno di quell’azienda?

E ancora, il negozio o l’attività dove di solito fate acquisti sono davvero attenti all’eco-sostenibilità della produzione dei loro prodotti?

Per la comunità sociale e ambientale il commercio equo e solidale (o Fair Trade in inglese), per esempio, appare come una carta vincente e piena di buoni propositi soprattutto per le “comunità”.

La trappola equo-solidale

Ma è di solo un anno fa l’articolo uscito sul Post che, da un’indagine del Guardian, riportava come il proliferare di etichette equo-solidali (si erano stimate oltre 460 etichette per cibo e bevande di cui un terzo erano state create solo negli ultimi 15 anni) in realtà non sono poi così attente al benessere dei propri lavoratori, come ad esempio i contadini (a volte purtroppo anche minori), che si occupano in maniera diretta della raccolta del cacao o del caffè.

E già perché qui entra in campo la “comunità economica” che dovrebbe sì, essere anch’essa equa (portando beneficio anche alla comunità che vive e lavora in quei territori), ma di fatto così non è perché come sostenuto dal Guardian il vero interesse delle grandi aziende che iniziano ad occuparsi direttamente di certificazioni equo-solidali è l’aumento della produttività e ovviamente delle proprie entrate.

E se andiamo a ritroso nel tempo, di esempi come questi purtroppo ce ne sono molteplici.

Il documentario dell’Inkiesta sullo sfruttamento “umano”

Come riportato sul sito de L’Inkiesta, nel 2013 aveva fatto scalpore il documentario (del film maker Donatien Lemaître) dal titolo esplicativo: “Il Business del commercio equo e solidale”.

Il documentarista infatti, dopo aver visitato piantagioni di caffè e banane tra Messico, Repubblica Domenicana e Kenia, denunciò la presenza di lavoratori irregolari haitiani nelle piantagioni di banane della Repubblica Domenicana.

Qui come in altre parti del mondo lo sfruttamento dei lavoratori più poveri a vantaggio dei proprietari terrieri era la norma.

FairTrade

Non a caso nel 2018, sullo stesso sito di FairTrade, l’organizzazione internazionale che lavora ogni giorno per migliorare le condizioni dei produttori agricoli dei Paesi in via di Sviluppo, ribadì come creare occupazione per prevenire anche le ragioni economiche dei fenomeni migratori si possa e debba fare.

Grazie a FairTrade che offre come modello di sviluppo “commercio, non aiuto frase che per molti rappresenta davvero il movimento di quello che dovrebbe essere in realtà il commercio equo e solidale.

Sostenere i produttori agricoli a stare in piedi da soli e quindi diventare emancipati e non più lavoratori sfruttati è un percorso che va oltre l’assistenza e porta dritti verso l’emancipazione economica, opportunità commerciali, sbocchi per i prodotti agricoli a condizioni “giuste”, ovvero senza sfruttamento delle persone e dell’ambiente in cui vivono.

I 10 punti cardine del commercio equo solidale

Ma quali sono i punti cardine del commercio equo solidale da rispettare per far sì che davvero ne benefici a 360° la comunità.

Il documento della WFTO, l’associazione globale che si occupa di commercio equo e solidale, costituita nel 1989, con 300 organizzazioni in oltre 60 Paesi, ne riporta almeno 10 fondamentali:

1. Creare opportunità per produttori con svantaggi economici;
2. Trasparenza e responsabilità;
3. Pratiche equo-solidali;
4. Pagamento equo;
5. Salari equi;
6. Stipendio medio locale;
7. Assicurarsi l’assenza di sfruttamento minorile del lavoro
8. Impegno alla non discriminazione, all’uguaglianza di genere e alla legittimazione economica delle donne e alla libertà di associazione;
9. Garanzia di buone condizioni di lavoro e rafforzare le capacità;
10. Rispetto dell’ambiente.

L’anello debole

E, a proposito di ambiente il cui rispetto va di pari passo a favore o sfavore della comunità, rimanendo sempre in tema di commercio, sapete quale è l’anello debole della catena commerciale particolarmente attento alle persone e agli ecosistemi?

Il trasporto per la consegna dei prodotti, materiali primi, etc.

Il trasporto via mare

Persino il trasporto via mare per quanto sia fra i più economici rispetto ad altri per paradosso – in termini ambientali – i suoi “costi” sono elevatissimi: un’imbarcazione portacontainer di medie dimensioni a pieno carico consuma circa 300 tonnellate di oli pesanti al giorno e i decessi prematuri conseguenti alle emissioni marittime in Europa sono 50 mila ogni anno.

La logistica che accompagna le manovre di queste enormi imbarcazioni ridisegna intere città, con porti dragati e ricostruiti ad hoc per permettere il loro attracco.
In caso di burrasca la perdita di container in mare aperto è un’eventualità messa in conto dai comandanti e dai proprietari del carico, che infatti assicurano la merce.

Ma una volta in mare questi colli sono nuovi materiali inquinanti e costituiscono anche una minaccia per le altre barche, rimanendo spesso a pelo d’acqua.

Le grandi navi portacontainer, lunghe anche 400 metri e larghe 60, ne possono trasportare oltre 10mila”. [Fonte: Repubblica]

Nasce Brigantes: il veliero cargo ecosostenibile

Ma per ovviare a questo è nata una splendida iniziativa: Brigantes.: l veliero cargo ecosostenibile.
Con oltre un secolo di vita, salvato dalla demolizione e recuperato dopo 15 anni in disarmo.

Per le ragioni legate all’emergenza Coronavirus e nel rispetto delle norme ministeriali vigenti, in queste settimane l’attività cantieristica è stata temporaneamente sospesa, ma completati i lavori di quello che al momento sembra il grande guscio di una noce, partirà dalla Sicilia la piccola rivoluzione zero emission shipping.

Con la sola forza del vento e allo scopo di promuovere i benefici della navigazione mercantile a emissioni zero, l’imbarcazione cargo gemella della più celebre Eye of the wind, sarà in grado di trasportare centinaia di tonnellate di prodotti biologici e di lavorazione artigianale: dal caffè alle fave di cacao al rum dal Sud America all’Europa, ma anche vini, olio e ogni tipologia di prodotti biologici mediterranei molto apprezzati nel Nord Europa e nelle Americhe.

L’obiettivo

“L’obiettivo – spiegano i componenti del team di Brigantes – è anche quello di incentivare un tipo di commercio equo e solidale che unisca due mondi locali sulla lunga distanza, senza dover passare obbligatoriamente per un sistema industrializzato con un impatto devastante sull’ambiente”.

Ma tornando a noi, proviamo ad accorciare le distanze.

Il nostro impegno come individui

A favore della comunità che vi circonda, magari il vostro stesso quartiere, siete sicuri di adottare sempre azioni mirate alla salvaguardia dell’ambiente del vostro territorio di appartenenza?

C’è infatti chi va in bici al lavoro per non inquinare ma poi se gli chiedi se fa – davvero- la raccolta indifferenziata, ti risponde di no e che tanto è tutto inutile.
Persino quelle aziende che definiscono il loro uffici ‘green’ grazie a lampade ad alto risparmio energetico, uso parsimonioso della stampante, schermi non lasciati perennemente in stand-by e condizionatori d’aria ad orari prestabiliti, mandano in fumo tutti i loro buoni propositi utilizzando pacchi e pacchi di carta non riciclata.

In questo ultimo periodo, a causa della pandemia in atto, ogni possibile dinamica è stata stravolta.

Una comunità estesa: il benessere organizzativo

Si è assistito quindi alla nascita di una sorta di comunità “estesa” che ha visto fondersi insieme: fragilità globale e fragilità personali degli individui.

Questo ha innescato l’esigenza di rivedere anche e soprattutto il tema del benessere organizzativo.
La condivisione di risorse e beni comuni infatti è diventata a 360°.

In ogni parte del globo infatti fare comunità è diventata un’esigenza primaria che deve andare di pari passo con la responsabilità delle risorse umane, ambientali, sociali e territoriali. L’urgenza ora è di concretizzare davvero quello che viene definito il “beneficio comune”.

Un termine fino ad ora utilizzato più che altro per dare lustro a quei discorsi molto politically correct ma che di fatto in termini concreti non hanno mai portato a grandi risultati.
E’ arrivato il momento però di costruire e pianificare in modo equo le risorse quali esse siano.

Di solito le comunità sostenibili si concentrano solo sulla sostenibilità ambientale ma adesso c’è la necessità che – tutte – le comunità da quelle sostenibili, economiche, urbane, sociali e territoriali si alleino per il bene comune.

Non è forse questo il significato della parola comunità: appartenenza e dedizione reciproca?

Vuoi saperne di più? Contattaci