La strada maestra della dignità!
Quando si parla di lavoro è come assistere alla deflagrazione di un concetto che esplode con la forza dei suoi molteplici significati, che rinvia a culture e idee solide e meno solide formatesi nel tempo, che è intrecciato profondamente con la storia del pensiero umano, con le trasformazioni sociali e dell’economia.
Da dove iniziare?
Forse conviene spendere qualche parola sulle concezioni prevalenti che lo guardano in modo differente svelandone significati e conseguenze.
È indubbio che il lavoro possa essere considerato (lo è stato e lo è ancora in molti casi) prevalentemente una fatica, carico del peso sofferente di una pena da sopportare, che si trasfigura in un dovere verso le comunità nelle quali si vive (società, famiglia, impresa ecc.).
C’è anche una diversa concezione che lo guarda come condizione perché ciascuno possa esprimere attraverso il lavoro le sue potenzialità come persona.
Da questa prospettiva, così, il lavoro consentirebbe a ciascuno di seguire la strada, spesso accidentata, della propria realizzazione.
Il lavoro diviene allora nobilitante, luogo di virtù ed esercizio di qualità.
Il lavoro come “relazione”
Alcuni invece esaltano il lavoro, qualificandone la concezione che ne fonda il significato, come «relazione».
Secondo questa lettura il lavoro esprime la relazione tra l’individuo e altri soggetti o, come è più facile oggi nell’epoca dell’Internet of Things, con altri oggetti.
Il lavoro perciò segnala l’emergere di molteplici e dinamiche interazioni, lasciando intravvedere più propriamente reti di relazioni che assorbono energie psico-fisiche e organizzative.
Lascia immaginare inoltre più livelli di relazioni e altrettanti piani di analisi attraverso i quali comprenderle e strutturarle.
In questo senso il lavoro appare come energia in movimento, azione organizzativa, attività che cambia l’ambiente.
Ecco allora affacciarsi una quarta concezione, quella che guarda il lavoro nella prospettiva cinetica, come forza dell’uomo che diventa azione trasformativa del mondo che abita.
Per quali fini lavoriamo?
Migliorare la vita e la sua fruibilità, cercare benessere personale e sociale, lasciare alle generazioni successive un mondo più abitabile e a misura d’uomo nel quale possano trovare le risorse necessarie.
Le diverse concezioni dialogano tra loro, s’intrecciano in una danza ritmata da quell’interdipendenza della quale stiamo sempre più prendendo consapevolezza quale dimensione costitutiva della complessità.
Il lavoro non può essere allora solo fatica o pena da espiare assoggettandosi al potere di altri per diventarne schiavi senza dignità, ma il «lavoro ben fatto» ha anche le sue pene e sofferenze.
Il lavoro e la perizia degli artigiani possono essere un valido esempio di quanta «fatica» celi la ricerca di qualità.
Esprimere la propria personalità, attraverso progetti e risorse che liberano valori, sogni, competenze e abilità, d’altro canto, non può realizzarsi in modo sostenibile senza tener conto degli altri, per esempio dei fini dell’organizzazione nella quale si collabora.
In altre parole il potenziale di ciascuno e la sua liberazione non possono diventare criterio assoluto per ordinare società, organizzazioni, gruppi di lavoro.
Devono vivere in tensione dialogando con tutto il resto.
Il lavoro come “atto trasformativo”
Trasformare il mondo che si abita attraverso il lavoro e, più in generale, l’attività umana deve rispettare alcuni limiti, deve saperli identificare e riconoscere, per farli diventare forza generativa e non estrattiva di risorse da bruciare su uno dei numerosi altari dell’egoismo e del tornaconto irresponsabile e insostenibile.
È davvero difficile districarsi nel magma di questa deflagrazione che mette bene in luce, però, i rischi che si corrono a voler volgere lo sguardo al lavoro da prospettive riduzioniste e unidimensionali.
Perché il lavoro, trovando ispirazione nella letteratura psicologica che ne approfondisce dimensioni e nessi, è «un processo complesso, multideterminato, carico di significati simbolici sia individuali che collettivi».
In questo tempo caratterizzato da molteplici transizioni, però, il lavoro può diventare risorsa fondamentale per orientare diversamente la vita, per accelerare il cambio di paradigma dell’economia, per trasformare i modelli di business in modo che interiorizzino la necessità di creare impatto anche sociale e ambientale, per organizzarlo nei contesti «phigital» affinchè non sia ridotto a prestazione ma diventi realmente la strada maestra per coltivare la dignità dell’uomo.
Quello che occorre fare senza esitazioni, in poche parole, è «umanizzare il lavoro».
Sostenibilmente.