La società comoda e lo smart working, il punto di vista del Professor Pesenti

Lo smart working sta modificando la mentalità di una società che va ripensata e ricostruita dopo il danno subito dalla pandemia. Ma in che modo può essere producente? L’analisi del Professor Pesenti ci aiuterà a capire a che punto siamo e dove stiamo andando.

La società comoda

È nata la società comoda.  Che cosa sarà mai?
La pandemia ci ha lasciato un’eredità troppo gravosa: quella di ricostruire una nuova società che sappia districarsi tra il virtuale e il reale, evitando di cadere in quella sfera individualista che è figlia del periodo vissuto negli ultimi due anni.

Ci siamo abituati ad avere tutto dentro casa, tutto a portata di mano, ma quanti si sono interrogati su cosa realmente stiamo perdendo?

Noi siamo i figli delle relazioni, della pausa caffè, dell’aperitivo dopo il lavoro, del panino all’università durante la pausa pranzo.
Siamo figli dei progetti che abbiamo partorito tra una risata e una presa in giro. Ma in presenza. Non davanti a uno schermo.

Grazie al Professor Luca Pesenti, docente di sociologia all’università cattolica del Sacro Cuore di Milano e Membro della Commissione tecnica Osservatorio del lavoro agile nella Pubblica Amministrazione, abbiamo affrontato il cambiamento della società e il tema dello smart working, spinoso e ancora poco strutturato in Italia.

Breve differenza tra smart working e telelavoro

Professor Pesenti, prima di immergerci nel mondo dello smart working, possiamo fare una breve differenza tra smart working e telelavoro?
La differenza è molto semplice, ma ci passa un mondo di mezzo.

Il telelavoro è la semplice trasposizione del lavoro che una persona farebbe normalmente in ufficio trasposto da un’altra parte, di regola a casa. Lo smart working, o lavoro agile, è una nuova modalità di organizzazione di lavoro, che richiede una riprogettazione per fasi di obiettivi dell’organizzazione di lavoro.

Non solo, ma richiede una riorganizzazione del mindset aziendale, degli spazi, del ripensamento della tipologia di lavoro

Facciamo chiarezza…

Sono due cose molto diverse, noi abbiamo chiamato smart working ciò che invece è a tutti gli effetti è il telelavoro.

Quindi se diciamo che lo smart working è l’erede del telelavoro e una sua trasformazione, non sbagliamo?

Diciamo che il telelavoro è il risultato che la tecnologia ci permette di fare, lo smart working è ciò che è permesso dalla capacità umana di rendere la tecnologia organizzativamente efficace e umanamente sostenibile. 

Dall’inizio della pandemia a oggi quanto è cambiata un’azienda dal punto di vista dello smart working?

È difficile dirlo in maniera secca. C’erano aziende che avevano già iniziato ad operare in questa direzione prima della pandemia e sono quelle imprese che si sono trovate a loro agio, cioè erano già pronte e non ne hanno risentito.

In realtà la stragrande maggioranza ha fatto e continua a fare prettamente telelavoro.
Il primo giugno cade la fase emergenziale per le imprese in smart working, è probabile che in questi mesi si comincerà a discutere nuovamente, generando una serie di accordi individuali come prevede l’autentico lavoro agile.

Sarà da lì in avanti che potremo effettivamente capire cosa stanno facendo le aziende in merito a questo tema.
Fin qui c’è stata una risposta reattiva all’emergenza, spesso hanno sfruttato l’occasione per tagliare i costi soprattutto in un momento di crisi energetica come questa, ma non dimentichiamo che i costi sono stati spostati dall’azienda al lavoratore/lavoratrice.

Per questo dico che di autentiche trasformazioni organizzative in giro ancora non se ne vedono.

Smart working e sostenibilità ambientale

Si parla spesso di costi sostenuti dal lavoratore, come l’energia oppure lo spostamento da casa al posto di lavoro, ma lo smart working è davvero producente per la sostenibilità ambientale?

In realtà da qualche parte la connessione ci deve essere, un computer attaccato a una rete elettrica, un riscaldamento e una luce accesi nel momento in cui servono, diciamo che se li spostiamo da un’azienda a una casa non vedo un grande risparmio se non quello dell’azienda a carico dei lavoratori.

Per questo i contratti vanno poi riformulati conteggiando gli oneri che i lavoratori si devono sobbarcare, tenendo presente anche i costi che non si dovranno più sostenere come quelli di trasferimento.

Materia di studio

All’interno della recente pubblicazione “Smart Working Reloaded” scritto con Giovanni Scansani, citiamo uno studio condotto da ricercatori della Purdue University, della Yale University e del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che ha analizzato gli impatti idrici e sul territorio associati alla crescita di utilizzo degli scambi di informazioni digitali (Obringera et al., 2021).

Lo studio segnala come, nonostante un calo record delle emissioni globali di carbonio nel 2020, il passaggio al lavoro e alla didattica a distanza, nonché all’intrattenimento online da casa causati dalla pandemia, avrebbe determinato un impatto ambientale significativo a causa del modo in cui i dati di internet vengono archiviati e trasferiti in tutto il mondo.

Lo studio, ad esempio, segnala come un’ora di videoconferenza o streaming determini un’emissione di anidride carbonica compresa tra i 150 e i 1.000 grammi13, nonché una richiesta di acqua compresa tra i 2 e 12 litri.

Il quadro sociale

Ci disegnerebbe un quadro sociale diviso tra pubblico e privato per lo smart working?

La Pubblica Amministrazione ha abbondantemente utilizzato il telelavoro e non ne ha valutato l’efficacia e gli effetti se non in prima parte.

Solo un terzo delle aziende centrali hanno risposto a un questionario dicendo di aver valutato in parte i termini di efficacia, cioè la pubblica amministrazione ha utilizzato il lavoro agile per salvaguardare la salute dei propri dipendenti, ma non si è preoccupata delle conseguenze della modalità sui cittadini.

Non è un caso che il ministro Brunetta, nominando la commissione tecnica di cui faccio parte anch’io dell’osservatorio sul lavoro agile nella pubblica amministrazione, nel giorno dell’insediamento, ha detto che l’Alfa e l’Omega del nostro impegno devono valutare se e come il servizio al cittadino viene garantito, se non addirittura migliorato, dal lavoro agile e dalla digitalizzazione.

Non può essere uno strumento risolutivo utile solo a chi lavora.

I privati

È diverso il caso dei privati. Molte filiere hanno continuato a lavorare con i dipendenti in presenza anche nel periodo più brutto della pandemia perché non c’era alternativa.

Parliamo di aziende agricole, prodotti per l’alimentazione, della vendita.
L’ingrosso ha lavorato in presenza, la logistica e il delivery hanno fatto in modo che le cose arrivassero in casa.

Molte imprese hanno potuto non fermarsi perché hanno trasformato il lavoro in telelavoro, ma poi sono state le prime che hanno cominciato a richiamare i dipendenti in presenza.

Questo sarà un passaggio inevitabile.

Ci sarà un momento in cui torneremo indietro, per poi iniziare a ragionare alla luce dell’esperienza fatta di una riorganizzazione del lavoro che preveda uno o due giorni di lavoro a settimana in un posto che non sia l’ufficio.

Teniamo conto che la situazione non è il capriccio di un dirigente o un amministratore delegato.
Bisogna capire due diversi fattori:

  • se il lavoratore è fatto per un lavoro così: non tutti i dipendenti sono fatti per un lavoro che è agile, perché si avvicina a un lavoratore autonomo, quindi uno si deve autoregolamentare e non è detto che tutti siano pronti per farlo;
  • se i lavoratori potranno beneficiarne:  si stima che solo un terzo dei lavoratori possano essere smartabili. Quindi chi parla di introdurre un diritto allo smart working non sa di che cosa parla.

Quali sono le caratteristiche che un dipendente in smart working dovrebbe avere?

Innanzitutto le caratteristiche di mansioni di ufficio, che possono essere svolte anche a casa.
I professori universitari, per esempio, lo fanno da diverso tempo.

Queste sono le figure smartabili, che a differenza delle altre, sono quelle direttamente correlate alla produzione di beni. In quel caso bisogna andare in azienda perché solo lì si può produrre.

Esistono delle eccezioni e l’industria 4.0, cioè quella a elevata robotizzazione e automatizzazione, in quel caso potremmo avere lavoratori operai che potrebbero lavorare da remoto controllando le macchine da remoto come se fossero in presenza.

Sono tutti predisposti allo smart working?

Ecco questo è un altro problema. Io consiglio ai neolaureati di accettare posti di lavoro che non prevedano almeno la maggior parte del lavoro in presenza.

Perché chi comincia un lavoro lo impara soltanto stando insieme agli altri, vivendo l’organizzazione, andando in mensa, chiacchierando, parlando nei corridoi o alla macchina del caffè.
Solo lì si capiscono e si percepiscono diverse dinamiche del posto di lavoro.

Se poi vengono proposti posti di lavoro 100% smart, rifiutateli perché non imparerete niente.  Bisogna avere una grande capacità di autocontrollo, bisogna sapersi gestire il tempo.

Per arrivare ad avere un autocontrollo e un’alta capacità di differenziazione di tempi di lavoro ci vuole esperienza.
Per questo credo che lo smart working sia utile per chi lavora almeno da 10 anni, molto più utile se si hanno dei lavoratori anziani.

Molto spesso le aziende hanno in casa dipendenti over 60 e diciamo che in quel caso farli lavorare in smart working potrebbe essere una buona pratica. A Milano stanno riadattando sedi periferiche per fare in modo che i dipendenti della Pubblica Amministrazione possano scegliere la sede più vicina a casa.

Questo è un modo molto intelligente di fare smart working, con le mansioni che non hanno a che fare con le dimensioni individuali, ma con organizzazioni intelligenti, perché sono quelle indispensabili per fare smart working.

Se sono organizzazioni che ragionano con i vecchi criteri di comando e controllo in presenza visuale, difficilmente creeranno uno smart working ma realizzeranno un panoptico 4.0, cioè una forma di controllo a distanza ancora più incisiva rispetto a ciò che accadeva in precedenza.

A questo punto come subentra il diritto alla disconnessione?

Su questo tema viene fuori il vero paradosso. Il diritto alla disconnessione è tipico di un lavoro tradizionale che avviene per fasce orarie, ma allora siamo dentro la logica del telelavoro.
Che va benissimo, ma non chiamiamolo lo smart working perché non deve avere né un dovere di connessione, né diritto alla connessione, né un diritto alla disconnessione.

Ma consegna la responsabilità individuale tutte le scelte che dovranno essere fatte ogni giorno e ogni settimana, per raggiungere gli obiettivi e stare in relazione con i propri capi…

Il futuro

Siamo in una fase di ricambio generazionale, Lei ha già suggerito alle nuove leve di iniziare a lavorare in azienda, ma il futuro dei neoassunti, qual è?

Questo io non lo so. Giorni fa ho moderato un panel in cui c’era il country manager i una delle maggiori agenzie di lavoro italiane, il quale ha riferito che lo scorso anno su 70mila posti di lavoro temporaneo, non sono riusciti a coprirne 25mila.

Bisognerebbe capire come mai non ci sono candidati: forse perché le condizioni non erano adeguate? È probabile che il reddito di cittadinanza abbia creato una cultura contraria al lavoro e questo è un rischio che non possiamo permetterci.

La condizione di lavoro di oggi e domani è in un profondo e grande cambiamento, sappiamo che sono a rischio almeno il 20% degli attuali lavori a causa dell’automazione, ma sappiamo che da qui a 10 anni verranno creati altre nuove figure professionali.

Le caratteristiche dei neo assunti

Le caratteristiche principali dei neo assunti dovrebbero essere per la maggior parte:

  1. comuni a tutti e appartenenti alle character skills, cioè intendo quelle competenze che hanno a che fare con autonomia, resilienza, capacità di lavorare in gruppo, comunicare e via dicendo;
  2. competenze Stem, cioè proprie dell’area delle scienze, tecnologie, automazione, intelligenza artificiale e così via…

Chi dice che il lavoro di domani sarà solo per profili a elevata specializzazione secondo me non coglie nel segno perché ci saranno anche i generalisti capaci di tenere insieme la complessità. Serviranno filosofi, scienziati, della politica, laureati nelle humanities, insomma gente abituata a ragionare.

La “morte” del ragionamento?

In una società che va verso il pensiero breve, la facoltà di ragionamento è una caratteristica che sta morendo, non è d’accordo?

Assolutamente sì ed è proprio per questo che l’ho detto prima delle specializzazioni.
L’idea attuale è che servono solo gli specialisti che non devono ragionare troppo ma che hanno competenze tecniche e conoscenze raffinate, da saper svolgere un compito nel modo migliore possibile nel tempo più veloce possibile.

È una società asfittica a cui manca ossigeno e fiato. Specie dopo la pandemia, la società va pensata e ripensata.
Siamo figli di una frase infelice di Margaret Thatcher pronunciata in riferimento alla società che stavamo costruendo, la società onigarista, disse : “There is no alternative”, la società in cui non ci sono alternative.

Lo stesso concetto lo espresse, anche se pazzamente incompreso, Fukuyama quando parlò dopo la caduta del muro di Berlino parlando di “fine della storia”.
Eravamo convinti di essere arrivati alla fine dell’evoluzione, di aver costruito il migliore dei mondi possibili e che da qui in avanti c’era solo bisogno di mantenersi.

Invece purtroppo la pandemia, le guerre e quello che stiamo vedendo, ci ricorda che la facoltà di pensiero lungo e pensiero profondo saranno le caratteristiche più incisive.

Per questo chi continuerà a studiare e approfondire sarà ancora più forte rispetto al passato, rispetto a chi si accontenterà di studiare una specializzazione ma non avrà la possibilità di avere un pensiero critico collaterale.

Le nuove relazioni sociali

Nel futuro del mondo del lavoro quali sono le conseguenze delle relazioni sociali?
Sul posto di lavoro noi costruiamo relazioni, ma in smart working come facciamo a sviluppare le facoltà relazionali?
Io e Giovanni Scansani , scrivendo “Smart Working Reloaded” siamo partiti proprio da qui.

Il lavoro non è semplicemente “fatto di relazioni”, il lavoro “è relazione”.
È il modo in cui si entra in rapporti privilegiati con la realtà, con i colleghi, con i superiori e i sottoposti, con i clienti, con il mondo ignoto che dobbiamo scoprire, è relazionarsi con l’imprevisto che dobbiamo affrontare.

È chiaro che la bidimensionalità in cui ci costringe il lavoro da remoto fa perdere per strada molto di questa sfera relazionale.
Nel libro lo menzioniamo con la frase “A pranzo con Steve Jobs”, perché lui raccontava che le grandi idee innovative, le aveva avute a pranzo con i suoi collaboratori.

Non le ha avute organizzando riunioni e mettendosi a pensare.
Le riunioni operative saranno utili svolte da remoto, on line, perché sono quelle con cui si prendono facilmente delle decisioni e sono proficue soprattutto in aziende con uffici sparsi in tutto il mondo.

Benissimo che ci sia questa modalità.
Le riunioni strategiche, quelle di contenuto, di strategia, di pensiero dovranno essere in presenza. Se non saranno in presenza avremmo perso per strada un pezzo elevatissimo dell’umanità.

Società comoda (o società “sofà”)

Parafrasando un suo testo stiamo creando una “società comoda” che fa fatica a staccarsi dal divano per tornare a lavorare.

Questa è una brutta conseguenza della pandemia. Nel 2020 coniai questa idea di “Società Comoda” in un breve articolo come un appunto fatto a me stesso.
Ci siamo abituati ad avere tutto quello che era fuori casa, in casa: lavoro, studio dei figli, allenamento, il delivery che ci porta il cibo.

Addirittura la messa per i cattolici, durante il lockdown.
Si vede molto chiaramente che il ritorno al pre pandemia sarà un lavoro duro, perché la società comoda ci è entrata dentro psicologicamente come habitus mentale dalla quale facciamo fatica a uscire.

Studenti assenti

Io lo vedo all’università, con una grande quantità di studenti con la possibilità di continuare ad avere una lezione in presenza, che preferiscono invece stare a casa piuttosto che venire in presenza.

Pensate che esperienza stanno perdendo.
Si viene in ateneo per conoscere gente, per rapportarsi con i professori.

ll’università nascono degli amori che poi magari diventano per la vita; si conosce gente che un domani darà da lavorare; si studia insieme all’università ed è un requisito fondamentale per arrivare in fondo.

Ed è dura da soli. Se prima perdevi una lezione, avevi bisogno di un amico a cui chiedere l’appunto, oggi hai la telecamera che ha registrato.
Non hai bisogno nemmeno più di avere degli amici.

Zero imprevisti

La società comoda qualcuno l’ha anche chiamata la società “chiusa in casa”, è asfittica, le relazioni diventano sempre meno e viene meno, io su questo continuo a pensare, uno degli elementi essenziali dell’uomo: l’imprevisto.

Montale aveva scritto una poesia in cui diceva che l’imprevisto era la sola speranza.
Riguarda noi stessi, le nostre abitudini, ci salvaguarda dalla replicazione che non porta a innovazioni e novità.

Abbiamo bisogno di esporci nuovamente all’imprevisto che è un rischio, ma ci serve.
Questo è un effetto della pandemia: difenderci a costo zero, senza rischiare nulla, difenderci come se non ci fosse un domani.

Abbiamo dimenticato che la vita è anche prendere dei rischi.
Se noi uscendo di casa non pensassimo al rischio ma all’opportunità che ci possa capitare qualcosa di buono, la vita sarebbe migliore. Abbiamo bisogno di rischi, imprevisti e nuovo spirito di avventura.

Quindi il lato oscuro della società comoda è non uscire di casa?

È che si esce di casa meno di prima. Non ho dati a supporto, ma è una delle mie ipotesi pensare che si fa più fatica a uscire di casa, andare al ristorante, al bar, a trovare gli amici.

Resto colpito dal vedere locali vuoti la sera perché vuol dire che c’è gente che non ha ancora riscoperto il bisogno di tornarci.
Poi è chiaro che in quel periodo di pandemia ci siamo abituati alle comodità e alla fruizione di contenuti on line.

Quindi perché andare al cinema se ho 500 film a disposizione a casa?
Uno quando va al cinema si ricorda perché è bello andare al cinema.

La pandemia ci ha tolto la possibilità di fare esperienza ma la realtà è che la società già da prima aveva tolto la possibilità di fare esperienza, erodendo pezzi di realtà e riconsegnandoli in forma virtuale e dobbiamo stare attenti a non caderci dentro.

È colpa del marketing se siamo in questa situazione?

Non indico mai né colpevoli, né vittime. Siamo tutti colpevoli e tutti vittime.
Se ci lasciamo ridurre il desiderio che ogni uomo ha nel cuore è colpa nostra e non soltanto del marketing.

Le aziende fanno il loro mestiere, servono per questo e creano posti di lavoro inventando cose nuove.
Sta all’uomo governare quello che le aziende producono ed è rimanendo in connessione con il nostro desiderio sorgivo e nativo che è un desiderio di fare esperienza positiva della realtà, che potremo sfruttare pienamente quello che la tecnologia ci dà senza farci fagocitare dalla tecnologia stessa.

Un modello ibrido

Quindi il modello ibrido tra lo smart working e il lavoro in presenza è un giusto compromesso per la generazione futura?

Il modello ibrido è sicuramente il futuro.
Andrà costruito con molta calma per tentativi di errori, senza presunzioni, senza riduzionismi, senza cadere nella tentazione di credere di avere già trovato la soluzione perché ne abbiamo fatto esperienza per due anni.

Ma se sapremo costruirlo con una modalità organizzativa capace di far fiorire un tipo di persona di uomo e le sue capacità, sarà un passo avanti per l’umanità.

Se il lavoro ibrido sarà un modello per aumentare il controllo sulla persona e sulla produzione, riducendo una persona a un elemento di produzione ci avremo perso tutti.

Come ogni volta che c’è un’innovazione tecnologica, starà all’uomo e alla sua capacità e alla sua libertà determinare la strada da prendere.
Come tutte le innovazioni tecnologiche la scelta sarà solamente nelle nostre mani.

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